Google e Zamenhof

 Oggi, 150 anni fa, nasceva un piccolo grande uomo. Una mente geniale che fin dall’infanzia non ebbe altro scopo che ideare quella lingua che sarebbe diventata, 28 anni dopo l’esperanto. Ques’uomo si chiamava Ludwik Lejzer Zamenhof.

Oggi Google festeggia il suo giubileo con la bandiera esperantista che sventola.

Google e l'esperanto

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Dialetti e osterie

Una delle ultime “boutade” dell’estate, eufemismo per ca***te, tirata fuori, tanto per cambiare, dalla Lega è quello dell’insegnamento dei dialetti a scuola e tralasciamo le esternazoni sull’Inno dei Mameli, sui test per gli insegnanti di fuori regione, per poter insegnare, e cavolate varie.

Questa difesa ad oltranza dei dialietti da parte dei leghisti rischia di far diminuire d’importanza i dialetti e di farli passare come una cosa politica di esclusivo dominio di questi signori (altro eufemismo) della Lega. Ed invece i dialetti sono una cosa seria che non bisogna lasciare in mano ai frequentatori delle osterie padane.
Per comprendere a fondo di cosa si parla è necessario un piccolo approfondimento linguistico.

Qual è la differenza tra i dialetti e le lingue?

Ebbene la differenza tra i dialetti e le lingue, praticamente non esiste. Quando si vuole definire un dialetto lo si fa con una “battuta”: “un dialetto è una lingua senza esercito”, questo per far capire quanto sia difficile differenziarli linguisticamente.
I dialetti in Italia, in genere, sono delle modifiche del latino nel corso dei secoli (come metafora prendete un fiume ghiacciato in superficie → il latino classico – e l’acqua che scorre sotto il ghiaccio è il latino parlato che durante l’Impero Romano si evolve sempre più). Dopo la caduta dell’Impero Romano (= rottura del ghiaccio) il latino parlato, già abbastanza differenziatosi, si va sempre più allontanando dalla lingua originaria. La divisione dell’Italia in molti staterelli non fa che accentuare le differenze e l’evoluzione di ciascun dialetto, in vere e proprie lingue che con il passare dei secoli risultano incomprensibili le une alle altre, quanto più sono lontane geograficamente.

Gli attuali dialetti quindi non sono altro che il latino evoluto e non come alcuni pensano (almeno in centritalia, storpiature dell’italiano (toscano).

Ogni dialetto, appartenendo a delle comunità da secoli, fa parte delle radici di queste comunità, e più sono piccole, tali comunità, più queste lingue sono identificative delle loro radici. La scomparsa di un dialetto è come il taglio delle radici di una pianta, una perdita di identità che non si può più recuperare. Scomparso un dialetto si perde un pezzo d’identità e non ne rimane testimonianza vivente. Persa l’identità tutto si appiattisce e gli individui di queste comunità diventano come pecore di in un gregge, non più riconoscibili dalle altre.

E quindi, è giusto insegnarlo a scuola?

Sì, certo, ma a quella scuola speciale che è la vita, la strada, la famiglia. Il dialetto andrebbe parlato in famiglia senza vergogna (se si tratta di famiglia uniforme: in cui ambedue i genitori parlano lo stesso dialetto). Purtroppo esistono politici che aprono bocca e danno fiato, senza collegare il cervello e così ci ritroviamo delle proposte insensate e irrealizzabili, se va bene, altrimenti realizzabili a chissà che costi.

Perché?

Ci sono diverse ragioni (lo so che parlare di ragione con alcuni politici è come parlare cinese con un padano).

Per prima cosa: una regione può anche avere un dialetto più o meno uniforme, ma non sempre è così; i dialetti non hanno confini ben definiti e non sono localizzati precisamente. Paesi o città vicine, possono avere dialetti diversi, E allora, quale dialetto insegnare? Quello della città in cui ha sede la scuola? Quello della maggioranza? E allora che facciamo? Prima diciamo che ogni dialetto ha una sua dignità e poi diciamo che alcuni ne hanno più di altri?

Chi saranno gli insegnanti e quanti saranno necessari? Dove verrà trovato l’insegnante di un determinato dialetto, specialmente per quelli di piccole comunità, in cui magari non esiste alcun insegnante di lingua? Oppure questi insegnanti dovranno prima imparare il dialetto che dovranno insegnare? E poi se verranno trasferiti nella scuola della città confinante, ne dovranno imparare uno nuovo oppure non avranno diritto di insegnarlo?

E gli alunni? Accade spesso che una famiglia si trasferisca in un paese a poca distanza, e i figli che faranno, inizieranno ad imparare un nuovo dialetto a scuola? Se si tratta di materie comuni come l’italiano o la lingua straniera, tutte le scuole insegnano pressoché le stesse nozioni, ma nel caso del dialetto dovrebbero impararlo da capo, e così avremo le classi differenziate non solo per gli extracomunitari ma anche per i bambini che hanno traslocato da una città all’altra.

Il dialetto come detto in precedenza, si parla sulla strada con gli amici, i compagni di giochi o in famiglia. È lo strumento di comunicazione di più basso livello: quello per comunicare con gli individui più vicini. Ad un livello maggiore si trova l’italiano, per comunicare con tutti gli altri nostri connazionali fuori della cerchia del dialetto, che a questo punto potrebbero essere anche gli abitanti di un paese vicino, che ha un dialetto diverso. E siccome al livello base, la “vita” stessa generalmente insegna il dialetto, l’italiano deve essere insegnato a scuola e deve correggere le abitudini acquisite parlando una lingua di strada.

L’esperienza prova che i bambini possono imparare tre lingue simultaneamente (ad es. lingua materna, lingua paterna e lingua dell’ambiente frequentato) quindi non c’è alcun problema nell’imparare il dialetto e la lingua nazionale. Quindi la situazione attuale già andrebbe bene, anche se una maggiore valorizzazione dei dialetti sarebbe auspicabile, in special modo una sensibilizzazione alle famiglie a non rimproverare i figli quando lo parlano (in questo caso parlo della situazione che è venuta a crearsi nel mio paese, dove il dialetto sembra una storpiatura dell’italiano e non piace ai genitori).

I dialetti sono una cosa troppo seria per lasciarli in mano a questi individui.

Infine, sopra ho parlato di due livelli di comunicazione, quello più basso, occupato dal dialetto, e il secondo livello, quello occupato dalla lingua nazionale. Ma ce ne sarebbe un terzo, quello per la comunicazione inter-nazionale. Questo posto dovrebbe essere occupato non da una lingua nazionale, per ovvie rragioni, ma da una lingua che abbia alcune qualità fondamentali: la neutralità, per non favorire nessuno, la facilità, per dare la possibilità a tutti, anche a chi non è portato per le lingue, di impararla.

Be’, alla luce di queste qualità, attualmente, l’unica lingua che potrebe occupare questo posto è l’esperanto.

Ma questa è un’altra storia…
 

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